domenica 12 dicembre 2010

Torino 2010









La grande biglia gialla,
graffiata dal vetro di un cielo ruvido,
si è tolta la sua patina di plastica
e ora odora di mandorla.
Voglio una città bianca
senza inutili luci di Natale.
Col do di petto delle Alpi che mi risveglia,
e la fredda carezza del Po che mi trasporta
ai piedi dei giganti.
Et voilà appollaiato sulla punta
e Torino, Antonelliana, non c’è.
Scendo le scale, e incontro
un oltre di sporcizia che respira
dopo il mercato di piazza Vittoria.
Quaggiù la gente fa il verso ai francesi
credendoli ormai morti.

lunedì 25 ottobre 2010

Finestra di notte

Impiccato alla luna,
dietro a un velo di vetro
vedo ancora il tuo viso.
Le tue mani sul mento,
quelle labbra alla gola,
nude scapole, e lame
che squarciano lenzuola.
Per questo bacio il vento
come un bimbo che ha fame,
col pudore del muro
e gli occhi tra le tende.
Dì, dove dormi adesso
mentendo al tuo futuro?
Che misero regresso
l’ora del tuo ricordo.
Credo non ti piacciano
i polmoni piangenti,
questi miei pugni gonfi.
Giorni enormi mi schiacciano
tra scarpe indifferenti;
scarni e in cenere, i cieli.
Vorrei sempre la notte:
le mie dita ingiallite
che spengono la luce
della finestra muta,
e il sogno che conduce
in luoghi meno oscuri.
La candela resiste
nella mia tana nera,

con il corpo raccolto
il freddo non esiste;
quando il mattino arriva
tendo ancora alla notte,
perché non c’è deriva
se tutto resta fermo.

lunedì 31 maggio 2010

Stanotte dormo da te









Il tramonto cala con le sue tende
e i nostri occhi sorgono nel buio

immergo le mie mani nella terra
assaggio l'acqua della tua fontana.

La bocca beve da labbra di fiore
finché dai polsi mi penetra un fiume,

il mio sonno sarà sul lago bianco
sopra un seno ed un dorso di foglia.

Con i piedi appoggiati a un cielo morbido
spegnerò la lampada della luna,

risorta dopo una pioggia improvvisa
su un argenteo lenzuolo di cirri.

lunedì 12 aprile 2010

Mare e grano

Sei la perfezione del mare.

Ed io, l’errore delle onde,

con mani di spume impazzite

getto vento sulla scogliera,

e così costringo la terra

alla tua curvatura dolce,

lo zenit d’azzurro disteso

sotto la cortina del cielo,

che svela un inguine di luce

dentro lo specchio parallelo

che assomiglia alla mia mente.

Proprio mentre il sole m’assorbe

e il grano cresce.

lunedì 22 marzo 2010

L'Aquilone










Le foglie degli alberi

inventano ciliegie
quando l'urto più dolce

risveglia il cielo pigro

Le tue ginocchia candide

in traiettoria d'arpa
separano l'azzurro

con colline di grano


Correndo, posso amarti

appeso all'aquilone

martedì 23 febbraio 2010

Pagina di Notte


Le notti sono tutte uguali: gli occhi chini dei lampioni, il cervello opaco della luna. Le notti sono tutte nere, come la fortuna. Cieca, dico al barista quando, appoggiato al bancone, storco un sorriso che riflette nebbie umane e illuminazioni artificiali. I miei denti disposti a difesa del tramonto. Il mio naso che disegna la sua umile ombra, nell’utero della notte. Già la notte, sempre uguale. Scorrono una appresso all’altra, le notti, come pagine di pece che rendono la consolazione l’apice del tempo quotidiano. Sul ventre convesso del buio dichiaro agli avventori (e non al barista, cui chiedo di versare un pezzo liquoroso di cielo) che si scivola gioiosamente dalla piazza al letto. Per fermate casuali. Per alienazioni minute. Per squarci di pensieri. Il tempo cerca d’inseguirmi, ma non riesce a starmi dietro. Il suo fallimento è la libertà. Così è la notte: sempre ugualmente disposta ad accogliere gli spiriti liberi. Perciò il mio sorriso diventa insetto. Che vibra le note di Chopin. E s’arrampica sulle facce degli altri. Pollini e parole, tutto si posa e svanisce nel fiore del letto. Il letto è una rosa: chi non dorme si riposa. Io dormo, sogno, navigo, esulto. Così, quando sarà già arrivata la legge dell’alba a far impallidire i lampioni e a smentire i fiochi sillogismi della luna, io potrò dirmi innocente e felice. Il giudice non abita qui. Anche se tutti i mattini non sono uguali. E il tribunale chiama le udienze fuori dal portone. Perché la luce è la toga del sole.

martedì 9 febbraio 2010

Frida & il dobermann


Frida è una bimba buona,
ride e gioca in giardino, raccoglie dei fiori,
poi li posa sopra le orecchie del suo dobermann.
Quando canta l’angelo ingenuo il cane ringhia,
ché lui vede attraverso il vetro del futuro:
ed oltre il muro, centinaia di pederasti,
sovrapprodùcono quintali di sperma acido.
Che non feconda più l’utero della terra,
ma corre in tubi di banche aride di ortiche,
com’è l’onanismo itterico ed economico,
che ammala le cicatrici fino alla foce.
Le bocche ci vomitano, di fango e pece
si bagnano i seni di madri in favelas
costrette come insetti. E Frida è piccola e rosa
- risplende un sole giallo in neon sulla sua casa -
e il dobermann saliva simile a petrolio,
ché spreme nel cervello le ossa del mercato.
Grida di cravatte dai grattacieli:
«Decostruiamo il mondo» in metallo arrugginito
«e strappiamogli di dosso le sue biomasse,
che assomigliano a liquami, a liquidi e sangue
che si creano e corrodono tutta la terra.»
Sebo riposa sull’erba come rugiada
distesa al suolo, nuovo di petali e acciaio,
e schiaccia l’aria come del sudore nero,
ci getta fumo di feci da lunghe fabbriche.
Così ora le applaudono con grandi valanghe
- già! quelle creature di nebbia così solide –
gli adoratori dél neodolore dell’euro,
gli irrazionali servi dei denti del dollaro.
C’erano le stelle che bruciavano zolfo
questa notte, e ciminiere malate sotto,
con le loro unghie di ghiaccio, e lamine fredde
aspettavano l’altoforno del mattino;
ma il sole ride, con mille lingue di muco
si è ribellato e bercia sarcastico Morte!,
a tutti quanti gli uomini umide formiche,
rifugiati entro i rifiuti dei formicai
come in una catastrofe.

Questa poesia è stata scritta per una mostra allestita a Fabriano (dal 1 aprile 2007) in occasione di una iniziativa sulla Decrescita, ovvero la corrente per una "decolonizzazione" dal pensiero economico capitalista che si pone oltre il concetto di sviluppo sostenibile. La poesia era esposta insieme al disegno di un dobermann come scarabocchiato dalle mani di una bambina. Una cosa è certa, la questione ambientale non è più rinviabile. A livello metrico, ho optato per una struttura costituita soprattutto di versi lunghi a tredici sillabe, per avvicinarsi a un ritmo narrativo, ovvero: sfumato verso la prosa. Nel finale la poesia si scioglie nella filastrocca del settenario.

25/04/2007

lunedì 8 febbraio 2010

Il disertore

[...] Troviamo un uomo nella foresta. Un uomo vivo, un uomo giovane, senza uniforme. [...] Chiediamo: - Perché non ha l'uniforme? Tutti gli uomini giovani hanno un'uniforme. Sono tutti soldati. Dice: - Non voglio più essere soldato. - Non vuole più combattere il nemico? - Non voglio combattere nessuno. Non ho nemici. Voglio tornare a casa. [...] Quando ritorniamo con il cibo e la coperta dice: - Siete gentili. Diciamo: - Non volevamo essere gentili. Le abbiamo portato queste cose perché ne aveva bisogno. È tutto. [...]

da Agota Kristof,
Il grande quaderno

13/06/2007

Sonic Youth live


Per la prima volta ho ascoltato i Sonic Youth dal vivo. Hanno suonato Daydream Nation -inserito nel 2006 all'interno di The Library of Congress' National Recording Registry, istituzione che documenta la storia dell'America attraverso la musica - in un luogo suggestivo come il teatro romano di Ostia Antica. Era giusto ieri notte, una notte di noise. Tutti noi stavamo arrampicati sulle gradinate come locuste colorate su vecchie pietre, il cielo era lucido e terso, e presiedeva il concerto approvando con migliaia di luci. Le due chitarre suonavano come delle pazzie consapevoli, magnifiche. Sfregate sul palco, usate come percussioni, abusate negli armonici; Lee Ranaldo ha perfino pizzicato una chitarra classica amplificata con una distorsione che soltanto chi conosce a fondo la lingua dei pick-up è in grado di interpretare. La batteria non dava tregua e percuoteva il tappeto di quei virtuosismi, per far agitare tutte le locuste nell’ombra, me compreso, ma io stavo fermo e cercavo di distinguere i singoli suoni, per quello che potevo, e per quello che riuscivo mi lasciavo trasportare, anche nel soprappensiero, da quel tappeto di stridori armonici, da quel tessuto di incroci virtuosi e incredibili sovrapposizioni. C’è un fascino particolare in chi è in grado di controllare il suono con tanta perizia. È come se fosse capace di dominare un elemento della natura, attraverso un feticcio chiamato strumento. So come vi colpisce il timpano a voi locuste se do una manata sulla tastiera, e quando danno una manata ci arriva proprio quella vibrazione, precisa, creata per un atto consapevole. So cosa si propaga se sfrego tra le corde questo cacciavite in questo modo, e proprio quel fenomeno sonoro accade, contenuto nell’isteria di riflettori blu e viola. Poi ad un certo punto Kim Gordon ha smesso un attimo di cantare e si è messa a girare su se stessa come una bimba, o una baccante con un vestitino bianco da mocciosa. Ora, nel teatro, siamo dentro la musica, come ogni volta che la si ascolta davvero, la musica vera, sembra non contenersi più dalla frenesia, e si capisce. Ieri è stata una notte indie, una notte rock.

08/07/2007

Sole & desideri


C'è un caldo straziante, e il sole sta in cielo come una bocca di fuoco spalancata.
Io sto disteso sull'erba, e con le gambe accavallate assorbo il respiro pesante dell'estate. La notte scorsa è stata immobile come un'immensa colata d'asfalto, e l'aria sembrava persino infetta d'umidità. Adesso, contare i fili d'erba mi pare un modo utile per trascorrere il tempo, per ingannare il caldo, per sfuggire all'afa, per annoiare la noia stessa, per ripetere come in un gioco scacciapensieri, per ripetersi e ripetersi come per uno stupido gioco scacciapensieri. E mentre mi rilasso conto pecore conto petali conto molto, conto soltanto....
Ma prima che mi assopisco, ecco un uomo enorme dagli occhi tristi e con le ganasce molli da nuvola nera che inghiotte il sole. Fa molto freddo. Il mostro mi parla, proprio a me, mi dice che se esprimerò in pochi minuti un desiderio, lui rimetterà il sole al suo posto. Parola di genio, biascica.
Un desiderio - rispondo io - facile.
E invece no, quel maledetto ha chiesto a me apposta. Il furbone deve sapere che io non ho nessuna ambizione, nessun pensiero, e soprattutto poi d'estate, quando non tira un filo di vento. E allora faccio fatica, penso ai soldi ma non ho voglia di pensare a che cosa farne, penso alla salute ma già ci sto, in salute, e l'immortalità addirittura sarebbe una cosa esagerata di cui non capisco il senso. Dovrei passare troppo tempo su un prato a contare, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7... 1735, 1736... 1000000000, 1000000001...
Purtroppo non mi vengono in mente la pace nel mondo, la fine della povertà e cose del genere, devo essere troppo egoista o troppo superficiale, e in autunno dovrò fare uno sforzo per vergognarmene.
Voglio essere l'idiota - gli faccio convinto - colui che sta lontano da tutti e fuori da tutto, in estate non si può desiderare di meglio.
Esaudito, fa il genio ciccione, che prima di sparire rigetta il sole dalla bocca come i prestigiatori fanno con le uova.
Io mi sveglio nel prato che è quasi ora di cena, e vado a casa sbadigliando 1, 2, 3, 4 volte, da perfetto idiota.
Se racconterò in giro questa storia qualcuno mi rimprovererà sicuro di aver sprecato il desiderio. Se l'avessi avuta io questa occasione, dirà quel qualcuno ostentando la scaltrezza del fanfarone. Ma quali desideri si possono avere se comincia l'estate e fa un caldo straziante?

24/06/2007

Exarchia

Ricordo un luogo per eretici nel cuore di Atene. A fianco di piazza Exarchia c’era un centro sociale con su una bandiera anarchica malcucìta ma orgogliosa, consunto e nascosto tra una schiera di vecchie case diroccate appese appena a se stesse, e incastrato dentro quelle strade, strette come cicatrici di cemento rimediate negli anni 60 o chissà, forse molto prima. Le scale salivano lungo un corridoio stretto, un cunicolo, e voltavano sul perno di due pianerottoli. Al secondo piano, che dava su ambedue le stanze affiancate e separate da un canterto, c’era un palco rialzato da terra giusto un palmo, con sopra un gruppo che preparava gli strumenti per il concerto e un anziano scapigliato col basco e le ganasce da bulldog, imbronciato e grasso come una vecchia mucca stanca. La luce naturale era già scesa, che il gruppo aveva cominciato a suonare, erano deliziosi sfumati in quell’atmosfera surreale di colori, perché di blu verde e rosso erano verniciate le pareti del centro sociale. E facevano musica molto bella. I quattro componenti mischiavano le spigolosità del rock con la cadenza e la melodia popolare greca. Il cantante suonava a volte la fisarmonica, o altri strumenti della tradizione amplificati, come il rembetiko, una sorta di mandolino che si potrebbe paragonare ad una più piccola riproduzione dei fianchi materni, un accenno di fecondità. E anche vibrava il diaframma in modo meraviglioso, ricalcando un lamento che vaga tra le genti e sta inciso nel vento, probabilmente, per tutto il basso Mediterraneo. Nella bellezza della cultura risiede tanta parte della fratellanza tra i popoli, pensavo, mentre quella splendida litania profana evocava il pianto comune dell’incredulità di chi ha compreso che il grembo materno della terra, che fecondata dal sole partorisce spontanea tanta bellezza, non è soltanto la giovane vita che ostenta. Perché poi se la riprende tutta quella vita, la inghiotte, la trasforma nell’antica erbaccia della morte. Ero lì dunque, bevevo una birra, fumavo il mio drum, fissavo l’anziano scapigliato. Il quale ha osservato la band, immobile, con la saggezza muta di una pietra, finché non ha afferrato, quasi con arroganza, il microfono e ha preso a declamare, con la rabbia ruvida della vecchiaia, fiumi di sillabe concitate, incalzate dal ritmo folk-rock e dalle note del rembetiko. Il vecchio, mi hanno poi detto, era un noto poeta surrealista greco. Quella vacca enigmatica. La globalizzazione non è una cattiva cosa, tutt’altro, purché non faccia deserto di queste preziose realtà. 26/05/2007

Lorenzo Neri a Dite (II)

Riassunto: Il nostro eroe improvvisamente perde coscienza e trova tutto buio intorno a sè. Riprende conoscenza con il soccorso di Giovanni l'evangelista, il quale gli lascia intendere che questo è solo l'inizio dell'Apocalisse, e dice al protagonosta di seguirlo fino alla porta dell'inferno, che ora è diventata un enorme squarcio a cielo aperto nei pressi di Gerusalemme...

Vidi la bocca della terra aperta

e tra i suoi denti avevo il terrore
che, col fiato di fuoco, la coperta
dentro l’averno mi rubasse il cuore.
Giovanni m’indicò il suo vero nome:
«Ecco il pozzo, l’abisso del dolore,
è la città di Dite, o Inferno come
lo chiamate voi vivi». Che visione
le pareti infiammate nell’addome
dove attende la gran disperazione.
E aggiunse: «Ecco gl’ignavi, da qui quelli
fuggono, ma non hanno direzione
e i demoni ne fanno dei brandelli».
Ma più che loro senza volto in viso,
colpiti come da mille coltelli,
mi prese l’incubo d’amianto intriso:
il budello malefico sembrava
una gigante fucina, e già diviso
come vibrante frenesia cantava
il metallo, la guerra e gl’irti rostri;
più avanti l’Acheronte che colava
simile a bava marronastra. Ai nostri
occhi ecco una gran vampa di lapilli
schizzare accanto a una torma di mostri,
da crateri a lato, e uomini grilli
grigi, schiacciati all’ossa di dannati.
Non si poteva stare mai tranquilli
cadendo là, lava coi conati
mi avrebbe poi inghiottito in mille lingue,
bruciandomi di vomiti infuocati.
Un fumo nero di carboni pingue
è il fiato degli inferi, e ha il fetore
marcio di morte viva come sangue.
Un brivido bollente era l’umore
di quel budello di rossa saliva:
non tremava la terra che il terrore
che là dai buchi e dalle crepe usciva.
Giovanni all’improvviso mi chiamò
dicendomi: «Tu scostati!» Veniva
verso di noi un gruppo di demoni o
di volatili enormi. Io andai più dietro,
il santo invece gli si avvicinò:
«Lurido Malacoda, resta indietro!»
«Lo sai santo che qui non puoi passare»,
rispose simile ad un oboe tetro,
con la sua schiera pronta ad attaccare,
armata alle grinfie d’acuti uncini.
«Togliti cane non posso aspettare!»
gl’intimò quando furono vicini
Giovanni, già preparato alla lotta.
Ridevano come maligni bambini
sporchi di sangue, malati di gotta,
quei demoni veloci grazie all’ali
lo circondarono in una sola botta,
poi si disposero a cinque puntali
e gridò «Attacco!» il capo, Malacoda,
e i dieci demoni come maiali
grugnirono addosso al santo la proda
delle loro giunture di metallo.
Lesto Giovanni schivava la coda
di ognuno, poi ne spezzava il corallo
come le spine fossero di rosa
e la propaggine stelo. E il mantello
agitò il santo, e in una sola posa
fece poltiglia di carni e ferraglie,
nube materica, un’unica cosa.
Il loro capo, dopo le schermaglie,
di rabbia si rodeva tutti i denti
di fronte a quell’ammasso di frattaglie.
Così portato da furiosi intenti
mi vide debole e in volo inesperto,
e mi colpì coi suoi colpi violenti
per lasciar per lo meno un morto certo.
Poiché Giovanni non riuscì a pararmi
precipitai. Ricordo il mio sconcerto,
le unghie del diavolo forti strapparmi
la pelle, e il vuoto, e infine le emozioni,
e delle mani di melma toccarmi
e affogarmi tal bile nei polmoni.
Ero caduto nel buio Acheronte
e galleggiavo tra spiriti proni
che non ave’ più messo su la fronte;
e affogavo in quel fango disperato
finché mi sollevò un braccio gigante,
così potei di nuovo prender fiato:
era Caronte il gran traghettatore
che mi disse perché mi avea salvato:
«Giovanni da lassù è il tuo protettore
che mi ha ordinato di tirarti su».
Sul bordo della barca posai il cuore
perché non respiravo quasi più,
mentre il vecchio barbuto occhi di fuoco
batteva le anime dei morti in giù,
usando il remo in un feroce giuoco.
Mi berciò in faccia con grande disprezzo:
«Guarda questi uomini marci, da poco,
non avrebbero potuto al lor ribrezzo
metter rimedio prima della fine?
Ora quel loro inutile olezzo
salvo lo vogliono dalle cantine
che Satana arredò per tutti loro!
Ma se si lascia il male in nere brine
dilagare come un mostruoso coro,
dalla guerra dei gemiti e i lamenti
dove se ne scappano ora costoro?
Non si può sempre essere indifferenti»,
mi fulminò con fare paterno.
«Se tutti vanno da questi tormenti,
cosa ti porta a te dritto all’inferno?»
Io non risposi, preso dalla paura,
come se avessi del ferro allo sterno,
e lui capì alla prima congettura
e non si mise ancora a domandare:
«Beh, sarà grazie a te, mite creatura,
se potrò un’altra volta lavorare,
ti condurrò subito all’altra sponda
così potrai il tuo viaggio continuare
oltre la carne di questa umana onda».
Mi sedei solo, sull’aguzza prua,
lontano da quella pancia profonda
dov’era l’altro con la stazza sua,
dov’è senza speranza che si aspetta.
«Lurida feccia alata, ora ogni tua
occasione di fuga è interdetta,
Io ti ricaccerò indietro nel buco
che partorisce prole maledetta,
e striscerai come il più infame bruco!»
Era Giovanni, e ancora combatteva
nel cielo di caverna oscuro muco
che la sua gran condensa non scioglieva.
Di fronte Malacoda, e s’era armato.
Esito incerto il duello prometteva,
ed io temevo per il risultato.

13/07/2007

Lorenzo Neri a Dite (I)

Venne improvviso, il mattino che a Dite
Calliope si prese i pieni poteri,
per cui marciarono l’anime unite:
l’alba fe’ un fuoco dei cïeli neri,
l’erbaccia crebbe, senza una misura,
e cenere mestò tutti i pensieri.
Io stavo avvinto in una fredda paura,
dopo che, una cascata di calore,
avea bruciato del cielo le mura.
E riparavo le ossa dal dolore
nel buio, morto, della solitudine.
Un sole non c’era più, né in me un cuore.
Piangevano echi, e lontana inquietudine
rideva battendo i denti di ghiaccio,
finché, com’è gran suono sull’incudine,
mi cadde ai piedi un tuono. Ed io, straccio,
vedendoci appena ùn uomo di luce:
«Chi è ch’esce fuori da questo postaccio?»
dissi da fermo. «Colui che conduce
oltre la distruzione della terra,
poiché la follia, che immensa riluce
alla fine, è l’inizio della guerra.»
E con lingua di saetta continuò:
«Morte son le Muse, e sepolte in terra
con le stelle, e il Parnaso frantumò
presto, nell’urto sordo e disumano
che la furia del caso scatenò.»
«Ma chi sei angelo simile a umano?»
poi, chiesi alla sua bocca misteriosa,
vedendolo avvolto ìn un manto ameno,
che l’occhio stanco nel bianco riposa.
«Io sono quel Giovanni che Gesù
raccontò e la Sua fine glorïosa;
colui che gli appoggiò il suo cervello al cù-
ore, che diventò il Suo prediletto,
e cantò il giorno che non nasce più;
e poi mi addormentai nel buio letto,
respirando per sempre piano il Canto,
quelle Parole Sante del Suo Petto.»
Giovanni mi parlava senza pianto,
ed io ero torbido, per gli occhi, il mio
male, mi usciva, dal volto affranto.
«Non temere», fe’ a mo’ di padre pio,
«nessuno chiederà dei tuoi peccati,
sei salvo per la Grazia del buon Dio.»
Se anche lo stomaco era tra i conati,
mi fidai, ché lo vidi arder’amore,
e i suoi omeri non erano dannati:
erano docili, come bagliore
si acquieta sopra i lineamenti dolci,
e i capelli, di lana e di lucore,
ci avrebbero lasciati tutti guerci;
ma a me, diede il suo petto d’oro puro,
l’eroe emerso da nembi e da squarci.
«Cosa accade, cos’è ‘sto freddo duro?
- gli dissi con le labbra timorose –
Ché alla notte è seguito un giorno scuro?
Ché non si vedono più tutte le cose?
E ch’inghiottì la gran madre dei sensi?»
«Ora taci – Giovanni mi rispose -
ché ogni cosa si saprà, tu pensi:
di sapere di più di chi, dagli scranni,
ti parla per guidarti nei più densi
tra gl’incubi dell’uomo? Evita danni,
ascolta, ciò che, paziente, ti spiego:
irato pèr questi sciagurati anni,
Iddio severo ha dato il Suo diniego
a che su Gaia fiorisse un domani;
l’uomo, marcio, non ha avuto ripiego,
perché, il quarto angelo, versò a due mani
la coppa d’ira nel ventre del sole,
e crebbe qua, supernova sui nani;
bruciati pure i sani, come stole,
adesso sono tutti quanti morti,
bestemmiatori senza museruole
risponderanno subito dei torti.
Tu guarda in su – disse per indicare –
quel lume che gira, ìn cerchi contorti,
è il Padre, che scende per giudicare.»
A una lucciola mite somigliava,
a un frammento di luna dentro il mare.
E invece, lenta, Autorità calava
come uno scettro privo di pietà,
e la mia mente quasi si spezzava.
«Alzati! – m’ordinò la maestà –
Tu puoi volare, semplice mortale,
se vuoi vedere della verità.
E segui me, se tu non temi il male,
perché si va nella città dolente,
nella lurida tana del maiale.»
Così schizzò in alto. Io velocemente
fui appresso ai suoi piedi robusti,
i candelabri di una scia splendente.
Nell’ombra i monti parevano arbusti,
i fiumi oscuri di petrolio grumi
e foreste èrano macchie, e non fusti.
Se non mi fossi riparato, i fumi
del gelo tristo mi avrebbero ucciso,
com’unghia gelida che consumi.
Per l’ali che tenevo dietro al viso,
invece, quasi mi dimenticavo,
che dal mio viver certo ero diviso.
Ci abbassammo, e mi accorsi che nel cavo
del mare c’era una piena di sangue,
che per l’orrore quasi vomitavo,
e quell’odore ancora mi langue
nelle narici. «Che città è questa?»
Io chiesi intravedendone le lingue.
«Gerusalemme, che s’è fatta mesta:
- gridò Giovanni – terra fosti vite,
ma da te uscirà tanta prole guasta!»
Tra fiamme illuminate e tra ferite
della crosta, dell’anime torturate
venivano per gioco - udite udite -
da satiri intenti ìn risa efferate.
Altri dïavoli, di carne e d’ossa,
cornuti come ve l’immaginate,
di forza le gettavan nella fossa
più grandïosa. Iene e sciacalli,
d’acre bava imbevuti e gola grossa,
facevan dai dispersi dei brandelli;
sull’erba, fatta rossa di violenza,
beccavano mostruosi e lunghi galli.
«Siamo, dove finisce la coscienza
- fe’ Giovanni, vedendo il mio torpore –
questa truce follia, che sotto danza,
è una fuga dal regno del dolore
prima ch’abbia inizio ìl combattimento
ch’annegherà la terra di fragore.
Ma non si può fuggire dal tormento
che fu deciso prima di Esaù:
Dite, ora, è più forte di un lamento,
è una fucina, che si arma da laggiù
dove rivoluzione si architetta.
Vïene il giorno che non nasce più,
e comincia dall’urbe maledetta.

13/06/2007

Imenotteri a morte!

Avevo 6 anni, un nido di vespe aveva riempito il cassone della mia finestra. La notte, alcune di loro in avanscoperta, volavano sbattendo il muso sul soffitto, come un buio brusio. Poi si ammucchiavvano sul vetro, simili ad una formazione di soldati dalla divisa tigrata che cercassero istericamente un varco nelle difese del nemico, procedendo in ordine sparso e pestandosi sugli elmetti biforcuti. E poteva capitare che un calabrone, come un fragoroso bombardiere, volteggiasse intorno al lampadario costringendomi alla ritirata. Così quando vedo una strage di questi piccoli parassiti mi sento sollevato, e per qualche minuto mi soffermo su quella minima mostruosità che è il loro corpo.

Imenotteri sulle mattonelle
i cadaveri di ùn caricatore
puzzan morte dal puntopungigliòne
come polvere da sparo posata.
Culo da tigre, virgole aggressive,
zampe di ragno, le piccole fiere
sono dovunque e piovono in picchiata.
Le vene delle vespe sono nere,
le vene delle vespe sono gialle,
le vene delle vespe sono a punta
perché terminano con un proiettile.

30/07/2007

Acqua

Performance per il Festival Multietnico di Fabriano del 2007, che aveva come tema il rapporto tra uomo e acqua, vale a dire tra l'uomo e la sua primaria fonte di vita.

(Il maestro di cerimonia)
Un giorno arrivò tra gli uomini un derviscio che non aveva nome, e le sue preghiere non avevano una patria. Egli sembrava una nube leggera che aveva per tutti fresche parole di conforto. I suoi occhi erano raggi di luce, i suoi polsi solidi tronchi, le sue dita lunghe radici. Cosa cerchi?, gli chiedevano gli uomini incuriositi, poiché sino alla loro terra arida nessun forestiero era mai arrivato. L’oro, gli faceva quello prima di allontanarsi nel bosco secco. Ma nella valle non c’era oro, solo sassi spigolosi, e tutti lo sapevano. Così un giorno un giovane tra gli uomini, intimorito dalla sua povera statura, gli disse: Maestro, qui ci sono soltanto la terra e il duro lavoro.

(Tutti)
Maestro, qui non c’è nessun nettare,
le nostre mani così screpolate
tra di loro non riescono a congiungersi.
Tanto meno c’è ciò che voi cercate
quell’oro che rende l’uomo più ricco.

(Il maestro di cerimonia)
Il derviscio guardò severo come un temporale il giovane uomo. E gli rispose: Io non cerco l’oro che ha i riflessi della ricchezza, ma quelli della vita. Molti che avevano udito si allontanarono spaventati da quelle parole incomprensibili. Poi la voce del derviscio si fece più chiara, e accarezzò il capo del giovane uomo come una pioggia di primavera: Seguimi nel bosco, oggi troveremo l’oro e lo regaleremo a tutti, poiché a tutti appartiene. Molti che avevano udito si ritrassero pensando che il vecchio fosse pazzo. Il giovane uomo, invece, lo seguì senza chiedere oltre, attraverso i sentieri ricoperti di foglie caduche, che sono le lacrime che piangono gli alberi quando sono rinsecchiti. Il derviscio non parlò per tutto il tempo, poi, arrivato in un punto, s’inginocchiò, aprì le mani per ricevere la provvidenza e, sotto gli occhi del giovane uomo, così pregò:

(Tutti)
Padre nostro, benefica bocca,
dei tuoi figli dà ascolto alla sete.
Dalla falda risplendi, risorgi
oh fiume, così in limpido sangue
discendi dalla causa, nutrendo
la crosta della terra che attende.
Quel vino, eucaristia fresca e semplice,
lui di vivere a tutti permetta.
In zampilli ed in vortici minimi,
padre nostro accarezza la terra
con le punte dei tuoi piedi liquidi.
Rimetti a noi la pioggia, ricoprici
del canto della fonte. Con putridi
petroli affogherai i peccatori,
e mai salvo nessuno sarà.
Con l’acqua tornerai nella luce,
darai come una foce da bere
a chiunque chiederà. Conduce
l’amore all’acqua e l’acqua all’amore,
perché la grazia è in tutte le cose
di vita bisognose.


(Il maestro di cerimonia)
Il giovane uomo vide sgorgare l’acqua da una ferita della terra di cui prima non si era accorto, si accostò al guizzo che intanto si faceva ruscello, e di quel minuscolo prodigio bevve avidamente. Essa aveva il sapore e il colore del cielo. Il giovane uomo capì che era proprio grazie all’acqua che la vita gli scorreva nelle vene. E mentre l’aria si faceva più pura e i prati si facevano verdi, e gli alberi di nuovo sazi gonfiavano tronchi e chiome, tutti a valle che avevano udito le parole del derviscio capirono di che oro il saggio aveva parlato: dell’acqua, l’unica ricchezza, l’oro che deve appartenere a tutti, per dissetare l’umanità intera. Quando il derviscio e il giovane uomo fecero ritorno dal bosco trovarono le donne e gli uomini indaffarati nelle loro attività. Così, silenzioso, il derviscio poté andarsene umilmente, com’era arrivato, evaporando nella frenesia della festa. Grazie a lui ora gli uomini sanno cos’è che conta:

(Tutti)
Credo nell’acqua, perché forma il mio corpo per più del 70%.
Credo nell’acqua, perché pesa più della mia anima. E perché mi sento
perduto, come caduto laggiù, nel deserto, cercando solo un dio
che pietoso lui bagni le mie labbra, come con mio fratello faccio io.
Credo nell’acqua, perché viene per dare nuova vita a tutta l’umanità.
Credo nell’acqua, perché lei la terra ha trasformato in immensa bontà
cadendo, come la misericordia, per confortare il corpo e i nostri cuori.
Credo nell’acqua, che in quaranta giorni e quaranta notti, i nostri dolori
ha pulito insieme ai nostri peccati, per affidarci di nuovo alla fonte.
Credo nell’acqua, perché forma il mio corpo per più del 70%,
e in lei solo sento l’anima di ruscello.

(Il maestro di cerimonia)
Fratelli e sorelle, siamo oggi qui riuniti per celebrare insieme l’importanza dell’acqua, poiché essa appartiene a tutti. E rende una chiesa noi tutti, e a noi tutti ci rende una chiesa sola con la natura. Tutto il creato è pervaso d’acqua e senza acqua non esisterebbe la vita, questa fu la lezione del derviscio.
Dunque prendete e bevetene tutti.

(Tutti si mettono in fila per andare a bere vicino al feticcio e al maestro di cerimonia – presso l’“altare” si potrebbe dire, a seconda dell’allestimento -, poi ritornano a posto; dopo la prima celebrazione riparte la processione, la seconda celebrazione continua ancora:)

(Il maestro di cerimonia)
Ora sapete che l’acqua non ha bisogno di essere benedetta, perché già è consacrata dalla nostra sete e dalla sete della natura, e la sua forza limpida e gentile pervade e purifica tutto il nostro corpo. Andate in pace, e date da bere ai vostri fratelli e alle vostre sorelle.

(Fine della processione.)

10/09/2007

Ultimo tango a Milano

Corre un raccordo-trappola
e tarda il rinnovamento dell’alba,
mentre grida la radio: bacia Marylin!
Marylin ed io Marylin ed io
Marylin ed io – oh – Marylin ed io!
Spengo pure la radio,
non c’è mai rabbia in me.
L’ho imparato dal silenzio di dio
sul panteismo metropolitano,
che in nessuna frequenza
mai trasmesso, m’aspetta.
Quando parlo con la mattina bruna,
e con quella moretta sua amica
sul sedile di dietro accavallata,
non c’è fiato che interrompa le insegne,
che ne disturbi alternata la nota
zero uno zero uno zero uno, zero
ed io unico idiota
in attesa di un sole
che dimostri davvero
che mi spetta un caffè.

20/03/2009

Genova 2009

Mi porta una lunga serpe di cemento
oltre la barriera di casamenti
nell'abbraccio d'acciaio di Genova.
La sera sudicia
un sogno mi evita
fugge per i carrugi
e ha paura del porto:
quanto dista la mia anima?
Perché è più bello bere,
per dirsi vigliaccamente infiniti:
ho i piedi grandi tutta quanta l'acqua,
il mio petto alto è il cielo poderoso
e la mia testa ciò che non si vede.
La settima allucinazione assurda
è il fantasma di una farfalla umana:
la sua piccola mano tocca un'onda
e muove tutto il mare.
La lascio posare in terra e le dico:
Ehi, bambina bianchissima,
se io sono Genova tu sei il mare,
mi potresti aspettare?
Lo sai, è più bello bere,
poi baciarti e dormire
nel tuo soffice buio.

02/02/2009

Post-industria?


L: Credi ancora nella necessità del conflitto di classe? N: Credo che esista ancora una classe lavoratrice sfruttata che ha bisogno di dignità e diritti.L: Ma, la lotta di classe? N: Dipende dalla borghesia. Una borghesia ottusa la rende perfino necessaria. L: Ma il conflitto non è violenza? N: Oppure feconda dialettica. L: E dell’eguaglianza, sei ancora convinto? N: Chiaro. Bisogna capire che siamo tutti uguali per accorgerci che siamo tutti diversi. L: Ma l’ateismo è o non è un mito decaduto? I lavoratori dovranno battersi contro la religione? N: Naturalmente dipende con chi si schiererà Cristo.

(1)


Ancora esistono ampie e lunghe fabbriche.
Fatte di ferro, ardite cattedrali
pachidermiche, con clangori nelle
viscere, e piena orgia automatizzata
di operai e macchinari. A una navata
e in centinaia di linee di attrito
mettono umanità dimenticata
a svolgere il mestiere delle macchine.
Strutture gotiche che hanno invertito
l’alto e l’orizzontale, per schiacciare
ognuna velleità.
Sono caserme in cui si va al passo
dell’oca con tute blu e scarpe rigide,
per imparare a memoria a ripetere
fieri l’allegro caro agli industriali:
costruiamo un ordine naturale
in cui il lavoro è un ottuso animale
sodomizzato da virtuosi asini
con le froge stracolme di danaro!
Colti estremisti della produzione
venerano lo stesso oscuro Mòloch,
che rimastica i morti sul lavoro
e sputa gli arti degli infortunati.
Signori sono numeri da guerra,
se insieme si conteggiano anche gli angeli
volati in terra dalle impalcature!

(2)

Proseguendo al contrario nella scala
dei diritti, il pietoso figlio del
padrone - non sapendo che si ammala
chi scende sotto i piedi prepotenti
di una società pressoché bloccata -
raggiunse il fondo della produzione
e risalì con l’aria avvelenata:
come sono fatti i suoi fratelli,
lui voleva vedere,
no, non sono trattati da fratelli,
lui poteva vedere!
Non domò l’incubo del privilegio,
così si calò di nuovo nel buco
imparziale di bassi salari.
Trovò gli operai a pregare Maria,
una madonna fertile e fiorita:
tu sei ordine materno
la coesione benevola
il sindacato eterno
tu sei carezza e sciabola
la dea rivoluzione
bella perché incarnata
in un contropotere
detto emancipazione.
Maria era una sonora stella rossa
con in seno la pace e la giustizia:
voi siete carne e merce
in gabbie di bilanci,
dovete organizzarvi
e in pacifici slanci
in cui tutti compatti
vi lanciate nel ventre
della Costituzione,
dovete sollevarvi
da questa condizione
di liberi sfruttati.
Il giovane padrone destinato
a rilevare il reato del padre
s’innamorò della triste matrona
della miseria e della disgrazia:
lei, tanto fiera, dice:
di redistribuzione c’è bisogno
da quando sono le braccia e i cervelli,
quindi popolo avremo la razione
di libertà e materia che ci spetta.
Che si voti il partito sparito [X].

05/08/2008

Distico

Se la vita s'inverte
non esiste la morte.

15/10/2008

giovedì 4 febbraio 2010

Parole senza musica

Ho preparato per un mio amico musicista alcuni testi, perché mi ha chiesto un lavoro breve da poter mettere in musica per un coro francese. Potendo spaziare su qualsiasi tema, be' mi sono sbizzarrito cercando di offrire la più ampia varietà possibile. Ora uno dei primi due potrebbe finire in musica...


[L'angelo killer]

Vivrò una morte perpendicolare
Aspetterò il momento inopportuno
Salirò di una potente ascensione
Proiettile contro il petto di dio



[Parigi Rouge]

Il libro rosso ha le labbra libere
Marcia in versi in un lettore arrabbiato
L’inchiostro della Senna è illuminato
Perché il sole osa enormi piazze piene
Tu prediligi Parigi la spocchia
Il corimbo la rima dans la rue
C’è un poeta in piedi che nell’occhio
Ha in equilibrio la punta d’Eiffel
E un poeta esausto che nel cuore
Ha un esagono rosso d’amore.


[Brest]

La marea dei tuoi occhi fu lunghe spiagge
Ma tutto inghiottì quel gotico petto
Rosa che guarda di seni e di Gargoyle
Aspettando dell’amplesso un simulacro

Sotto il peso di quale cattedrale
Si sta spegnendo il nostro amore sacro?

Il tuo alito caldo di lingue estive
È una candela sui denti di Brest
Sono i detriti ora ai piedi di Brest
Le tue vette in granito, una volta vive


[Morte di un impiegato]
[Monsieur Employé]

La notte cala nera con tutto l’universo
Sulla camicia pallida da impiegato del nulla
Lui s’accende d’elettrici lampi e pensieri eroici
Dattilografando anche a casa cuore e carte
Ora ha un appartamento nel limbo di Lione
Con la televisione
Con la morte a colori
Mentre pensa alla propria
Il potente pulsare di un proiettile
Dentro il petto di un sé d’assassinare

05/03/2008

In spiaggia, il 26 agosto 1917










In limine il limone

M'illuminò d'immenso

25/03/2008

Дубна

Dubnà è una citta a 2 ore d'auto da Mosca tagliata in due dal Volga. Negli anni del comunismo l'accesso era regolamentato dai militari, poiché all'interno si svolgevano importanti ricerche scientifiche. Ancora oggi Dubnà è detta "la città della scienza" e vi si tengono numerosi congressi. Se ci passeggerai in un giorno di sole, non vedrai quasi nessuno senza una bottiglia di birra in mano.

Seduto sulla sponda.
Il grande albergo sta bianca betulla
sulla linea del verde con gli altri alberi,
mentre il Volga divide Dubnà in due
come un placido specchio.
Riflette i fumi d’un tramonto spento
e le beccacce sotto la linea delle nubi
ci berciano a dirotto.
Intimano gracchiando
che il fiume è muto-blu
e la natura pure,
che i morti sognano la fitta legna
dove già li misero i militari,
che l’uomo non ha mani
per raccogliere tutta quanta l’acqua,
anche se usa la scienza
o si ubriaca di birra.

03/05/2008

arCI (settenario)


Questo verso è il trionfo del suono affricato postalveolare sordo [ʧ]. La cosiddetta C dolce. Quasi una sua unità perfetta, se per raggiungerla c'è necessità di un contenuto semantico vero, diciamo immediatamente assimilabile e senza bisogno di appendici esterne, e se si considera il settenario il metro che può misurare i ritmi intimi e interni alla lingua italiana)

Ciao, sei associato Arci?
15/05/2008

mercoledì 3 febbraio 2010

Trittico Pop (nostalgico)












Masse reinnalzatevi,

come il sole s'innalza al mattino.


Quando un governo vi darà delle armi

voi rivolgetele per verticale

mai per orizzontale,

né verso il basso.

Io amo l'Utopia.

Perché è l'unico modo

per insidiare Dio.


11/05/2008

Europa dalla torre (Eiffel)


[…] Pensavo alle fitte banlieue che assediano il centrocittà cariche di rabbia dal perimetro dell’Ile-de-France. E bruciano d’amore sì per Parigi, ma come una contraddizione dalla carica rivoluzionaria. Le Troisienne Etat à la revolution! Non avevo finito di riflettere che sulla città era calata la notte, e i lampioni dei Campi Elisi stavano trionfando come una lunga e doppia sfilata artificiale d’etoiles. Guarda guarda Neri, mi disturbò il buon Massimo scuotendomi il braccio, c'est la Ville Lumiere, la Ville Lumiere! Al contrario Roma è ancora tranquilla. A guardarla dal cupolone di San Pietro essa è una florida matrona bianca e nuda. Pontificale carne di retorica. Mosca, vista dall’oblio-oblò dell’aereo che si dispone per atterrare all’aeroporto sud di Domodiedovo, è un’infinita colata di cemento tempestata di cupole d’oro e superbe stelle rosse. San Pietroburgo è l’elegante dama-bianca-dalla-Neva-ghiacciata, che vorrebbe tanto partecipare ai rendez-vous dell’alta società europea. Kiev, dallo smeraldo ortodosso del suo monastero in collina, sopravvissuto ai progetti urbanistici della nomenclatura comunista, è una distesa di grano grigio proprio al centro di una pianura assoluta, metafisica. Berlino, dalla torre della televisione di Alexanderplatz, nel duemila, era ancora una città spezzata in due da una striscia di terra irregolare, la cicatrice inferta dal XXesimo secolo alla grande guerriera Germania. Checkpoint Charlie in pensione non controllava più l’ideologia-ovest da una parte né l’ideologia-est dall’altra, rispettivamente disordinata e ordinatissima di parallelepipedi-palazzi. Firenze è un gioiello di pane azzimo, l’ostia più proporzionata, impreziosita da campanili e cupole di cioccolata che si sciolgono in dolci periferie, fino a dissolversi nel verde raggiante dell’Appennino. C’è Napoli umida, che dal ciglio di Capodimonte si rivela in un ammasso d’umanità innamorata del blu del mare brillante, e per questo lo difende dalle mire non chiare del Vesuvio, sacrificandosi col corpo per tutto lo spazio disponibile della costa fino a capo Sorrento. Barcellona se ne frega del mare. È tutta intenta in se stessa. Le guglie estroverse della Sagrada Famiglia di Gaudì non parlano mai di religione, ma, dinamiche di movimenti astuti e seducenti, celebrano un dio del canto e della danza, che sfocia liquido nelle Ramblas e non si lascia riassorbire se non dopo le sei del mattino. Edimburgo, invece, è cosi diversa. È un forzuto castello battuto dal vento di tramontana che governa i fantasmi celtici, resuscitati dai fumi della birra tra la città vecchia, strega medievale, e la città nuova, prodotto esatto della razionalità settecentesca. La chiamano l’Atene del Nord. Atene quella vera, invece, quella che fu del giusto Pericle, vista dall’Acropoli, è una bianca sudicia e vecchia mignotta degli anni ’60. Mai andata davvero d’accordo con le sue rovine, che vorrebbe nascondere come grinze di vecchiaia mentre accavalla milioni di gambe su se stesse, e sfoggia l’altro seno prosperoso (uno è l’Acropoli): il colle Licabetto con la funicolare in vista. Infine: Venezia, capolavoro insensato dell’uomo che si stanziò nella laguna. Oh, dal campanile di San Marco cos’è Venezia, cos’è dal campanile di San Marco quell’esperta e nobile signora di pizzi luminosi, con la veste a mollo direttamente nell’acqua d’argento! Proprio ora, ora che brancolavo nel buio del buco non so in che pozzo nero non so quanto sotterraneo, se fossi stato sul pinnacolo ingegnoso d’Eiffel avrei potuto scorgere da lassù tutta l’Europa supina! […]

05/06/2008

Europa dalla torre Eiffel

[…] Pensavo alle fitte banlieue che assediano il centrocittà cariche di rabbia dal perimetro dell’Ile-de-France. E bruciano d’amore sì per Parigi, ma come una contraddizione dalla carica rivoluzionaria. Le Troisienne Etat à la revolution! Non avevo finito di riflettere che sulla città era calata la notte, e i lampioni dei Campi Elisi stavano trionfando come una lunga e doppia sfilata artificiale d’etoiles. Guarda guarda Neri, mi disturbò il buon Massimo scuotendomi il braccio, c'est la Ville Lumiere, la Ville Lumiere!
Al contrario Roma è ancora tranquilla. A guardarla dal cupolone di San Pietro essa è una florida matrona bianca e nuda. Pontificale carne di retorica. Mosca, vista dall’oblio-oblò dell’aereo che si dispone per atterrare all’aeroporto sud di Domodiedovo, è un’infinita colata di cemento tempestata di cupole d’oro e superbe stelle rosse. San Pietroburgo è l’elegante dama-bianca-dalla-Neva-ghiacciata, che vorrebbe tanto partecipare ai rendez-vous dell’alta società europea. Kiev, dallo smeraldo ortodosso del suo monastero in collina, sopravvissuto ai progetti urbanistici della nomenclatura comunista, è una distesa di grano grigio proprio al centro di una pianura assoluta, metafisica. Berlino, dalla torre della televisione di Alexanderplatz, nel duemila, era ancora una città spezzata in due da una striscia di terra irregolare, la cicatrice inferta dal XXesimo secolo alla grande guerriera Germania. Checkpoint Charlie in pensione non controllava più l’ideologia-ovest da una parte né l’ideologia-est dall’altra, rispettivamente disordinata e ordinatissima di parallelepipedi-palazzi. Firenze è un gioiello di pane azzimo, l’ostia più proporzionata, impreziosita da campanili e cupole di cioccolata che si sciolgono in dolci periferie, fino a dissolversi nel verde raggiante dell’Appennino. C’è Napoli umida, che dal ciglio di Capodimonte si rivela in un ammasso d’umanità innamorata del blu del mare brillante, e per questo lo difende dalle mire non chiare del Vesuvio, sacrificandosi col corpo per tutto lo spazio disponibile della costa fino a capo Sorrento. Barcellona se ne frega del mare. È tutta intenta in se stessa. Le guglie estroverse della Sagrada Famiglia di Gaudì non parlano mai di religione, ma, dinamiche di movimenti astuti e seducenti, celebrano un dio del canto e della danza, che sfocia liquido nelle Ramblas e non si lascia riassorbire se non dopo le sei del mattino. Edimburgo, invece, è cosi diversa. È un forzuto castello battuto dal vento di tramontana che governa i fantasmi celtici, resuscitati dai fumi della birra tra la città vecchia, strega medievale, e la città nuova, prodotto esatto della razionalità settecentesca. La chiamano l’Atene del Nord. Atene quella vera, invece, quella che fu del giusto Pericle, vista dall’Acropoli, è una bianca sudicia e vecchia mignotta degli anni ’60. Mai andata davvero d’accordo con le sue rovine, che vorrebbe nascondere come grinze di vecchiaia mentre accavalla milioni di gambe su se stesse, e sfoggia l’altro seno prosperoso (uno è l’Acropoli): il colle Licabetto con la funicolare in vista. Infine: Venezia, capolavoro insensato dell’uomo che si stanziò nella laguna. Oh, dal campanile di San Marco cos’è Venezia, cos’è dal campanile di San Marco quell’esperta e nobile signora di pizzi luminosi, con la veste a mollo direttamente nell’acqua d’argento!
Proprio ora, ora che brancolavo nel buio del buco non so in che pozzo nero non so quanto sotterraneo, se fossi stato sul pinnacolo ingegnoso d’Eiffel avrei potuto scorgere da lassù tutta l’Europa supina! […]

05/06/2008