Venne improvviso, il mattino che a Dite
Calliope si prese i pieni poteri,
per cui marciarono l’anime unite:
l’alba fe’ un fuoco dei cïeli neri,
l’erbaccia crebbe, senza una misura,
e cenere mestò tutti i pensieri.
Io stavo avvinto in una fredda paura,
dopo che, una cascata di calore,
avea bruciato del cielo le mura.
E riparavo le ossa dal dolore
nel buio, morto, della solitudine.
Un sole non c’era più, né in me un cuore.
Piangevano echi, e lontana inquietudine
rideva battendo i denti di ghiaccio,
finché, com’è gran suono sull’incudine,
mi cadde ai piedi un tuono. Ed io, straccio,
vedendoci appena ùn uomo di luce:
«Chi è ch’esce fuori da questo postaccio?»
dissi da fermo. «Colui che conduce
oltre la distruzione della terra,
poiché la follia, che immensa riluce
alla fine, è l’inizio della guerra.»
E con lingua di saetta continuò:
«Morte son le Muse, e sepolte in terra
con le stelle, e il Parnaso frantumò
presto, nell’urto sordo e disumano
che la furia del caso scatenò.»
«Ma chi sei angelo simile a umano?»
poi, chiesi alla sua bocca misteriosa,
vedendolo avvolto ìn un manto ameno,
che l’occhio stanco nel bianco riposa.
«Io sono quel Giovanni che Gesù
raccontò e la Sua fine glorïosa;
colui che gli appoggiò il suo cervello al cù-
ore, che diventò il Suo prediletto,
e cantò il giorno che non nasce più;
e poi mi addormentai nel buio letto,
respirando per sempre piano il Canto,
quelle Parole Sante del Suo Petto.»
Giovanni mi parlava senza pianto,
ed io ero torbido, per gli occhi, il mio
male, mi usciva, dal volto affranto.
«Non temere», fe’ a mo’ di padre pio,
«nessuno chiederà dei tuoi peccati,
sei salvo per la Grazia del buon Dio.»
Se anche lo stomaco era tra i conati,
mi fidai, ché lo vidi arder’amore,
e i suoi omeri non erano dannati:
erano docili, come bagliore
si acquieta sopra i lineamenti dolci,
e i capelli, di lana e di lucore,
ci avrebbero lasciati tutti guerci;
ma a me, diede il suo petto d’oro puro,
l’eroe emerso da nembi e da squarci.
«Cosa accade, cos’è ‘sto freddo duro?
- gli dissi con le labbra timorose –
Ché alla notte è seguito un giorno scuro?
Ché non si vedono più tutte le cose?
E ch’inghiottì la gran madre dei sensi?»
«Ora taci – Giovanni mi rispose -
ché ogni cosa si saprà, tu pensi:
di sapere di più di chi, dagli scranni,
ti parla per guidarti nei più densi
tra gl’incubi dell’uomo? Evita danni,
ascolta, ciò che, paziente, ti spiego:
irato pèr questi sciagurati anni,
Iddio severo ha dato il Suo diniego
a che su Gaia fiorisse un domani;
l’uomo, marcio, non ha avuto ripiego,
perché, il quarto angelo, versò a due mani
la coppa d’ira nel ventre del sole,
e crebbe qua, supernova sui nani;
bruciati pure i sani, come stole,
adesso sono tutti quanti morti,
bestemmiatori senza museruole
risponderanno subito dei torti.
Tu guarda in su – disse per indicare –
quel lume che gira, ìn cerchi contorti,
è il Padre, che scende per giudicare.»
A una lucciola mite somigliava,
a un frammento di luna dentro il mare.
E invece, lenta, Autorità calava
come uno scettro privo di pietà,
e la mia mente quasi si spezzava.
«Alzati! – m’ordinò la maestà –
Tu puoi volare, semplice mortale,
se vuoi vedere della verità.
E segui me, se tu non temi il male,
perché si va nella città dolente,
nella lurida tana del maiale.»
Così schizzò in alto. Io velocemente
fui appresso ai suoi piedi robusti,
i candelabri di una scia splendente.
Nell’ombra i monti parevano arbusti,
i fiumi oscuri di petrolio grumi
e foreste èrano macchie, e non fusti.
Se non mi fossi riparato, i fumi
del gelo tristo mi avrebbero ucciso,
com’unghia gelida che consumi.
Per l’ali che tenevo dietro al viso,
invece, quasi mi dimenticavo,
che dal mio viver certo ero diviso.
Ci abbassammo, e mi accorsi che nel cavo
del mare c’era una piena di sangue,
che per l’orrore quasi vomitavo,
e quell’odore ancora mi langue
nelle narici. «Che città è questa?»
Io chiesi intravedendone le lingue.
«Gerusalemme, che s’è fatta mesta:
- gridò Giovanni – terra fosti vite,
ma da te uscirà tanta prole guasta!»
Tra fiamme illuminate e tra ferite
della crosta, dell’anime torturate
venivano per gioco - udite udite -
da satiri intenti ìn risa efferate.
Altri dïavoli, di carne e d’ossa,
cornuti come ve l’immaginate,
di forza le gettavan nella fossa
più grandïosa. Iene e sciacalli,
d’acre bava imbevuti e gola grossa,
facevan dai dispersi dei brandelli;
sull’erba, fatta rossa di violenza,
beccavano mostruosi e lunghi galli.
«Siamo, dove finisce la coscienza
- fe’ Giovanni, vedendo il mio torpore –
questa truce follia, che sotto danza,
è una fuga dal regno del dolore
prima ch’abbia inizio ìl combattimento
ch’annegherà la terra di fragore.
Ma non si può fuggire dal tormento
che fu deciso prima di Esaù:
Dite, ora, è più forte di un lamento,
è una fucina, che si arma da laggiù
dove rivoluzione si architetta.
Vïene il giorno che non nasce più,
e comincia dall’urbe maledetta.
13/06/2007
Nessun commento:
Posta un commento