lunedì 8 febbraio 2010
Exarchia
Ricordo un luogo per eretici nel cuore di Atene. A fianco di piazza Exarchia c’era un centro sociale con su una bandiera anarchica malcucìta ma orgogliosa, consunto e nascosto tra una schiera di vecchie case diroccate appese appena a se stesse, e incastrato dentro quelle strade, strette come cicatrici di cemento rimediate negli anni 60 o chissà, forse molto prima. Le scale salivano lungo un corridoio stretto, un cunicolo, e voltavano sul perno di due pianerottoli. Al secondo piano, che dava su ambedue le stanze affiancate e separate da un canterto, c’era un palco rialzato da terra giusto un palmo, con sopra un gruppo che preparava gli strumenti per il concerto e un anziano scapigliato col basco e le ganasce da bulldog, imbronciato e grasso come una vecchia mucca stanca. La luce naturale era già scesa, che il gruppo aveva cominciato a suonare, erano deliziosi sfumati in quell’atmosfera surreale di colori, perché di blu verde e rosso erano verniciate le pareti del centro sociale. E facevano musica molto bella. I quattro componenti mischiavano le spigolosità del rock con la cadenza e la melodia popolare greca. Il cantante suonava a volte la fisarmonica, o altri strumenti della tradizione amplificati, come il rembetiko, una sorta di mandolino che si potrebbe paragonare ad una più piccola riproduzione dei fianchi materni, un accenno di fecondità. E anche vibrava il diaframma in modo meraviglioso, ricalcando un lamento che vaga tra le genti e sta inciso nel vento, probabilmente, per tutto il basso Mediterraneo. Nella bellezza della cultura risiede tanta parte della fratellanza tra i popoli, pensavo, mentre quella splendida litania profana evocava il pianto comune dell’incredulità di chi ha compreso che il grembo materno della terra, che fecondata dal sole partorisce spontanea tanta bellezza, non è soltanto la giovane vita che ostenta. Perché poi se la riprende tutta quella vita, la inghiotte, la trasforma nell’antica erbaccia della morte. Ero lì dunque, bevevo una birra, fumavo il mio drum, fissavo l’anziano scapigliato. Il quale ha osservato la band, immobile, con la saggezza muta di una pietra, finché non ha afferrato, quasi con arroganza, il microfono e ha preso a declamare, con la rabbia ruvida della vecchiaia, fiumi di sillabe concitate, incalzate dal ritmo folk-rock e dalle note del rembetiko. Il vecchio, mi hanno poi detto, era un noto poeta surrealista greco. Quella vacca enigmatica. La globalizzazione non è una cattiva cosa, tutt’altro, purché non faccia deserto di queste preziose realtà. 26/05/2007
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